Thursday, July 10, 2014

Il tempo degli addii

Ricordo il momento in cui iniziai a scriverti di me. Avevo voglia di raccontarti, di raccontarmi. Ricordo
la luce che filtrava dalla piccola ed unica finestra di quel minuscolo appartamento in Caledonian Road.

Ora ti scrivo sotto lo stesso cielo ma da una finestra ampia e luminosa, lo sguardo non più costretto entro le mura di un cortile ma che arriva ampio e libero fino all'arco dello stadio di Wembley.

Sono partita dall'Inghilterra come se non vi sarei più ritornata. Poi la mia vita in Spagna, nell'appartamento in calle de Provença.
Poi la mia Roma solo una manciata di mesi per non lasciarsi morire da quella grandiosa, immobile bellezza. Poi finalmente casa, la mia Londra.

Le circostanze sono cambiate ma soprattutto sono io che sono cambiata.


Non ho più voglia delle esuberanze, delle frasi gridate, delle persone spigliate ma  piuttosto delle discrezioni, delle frasi sussurrate, delle persone timide.

Lasciare il palco e scoprire la bellezza della penombra delle quinte.

Per mesi ho indugiato nello scrivere con la scusa di non trovare il tempo pur sapendo che il tempo per le cose che ho desiderato fare l'ho sempre trovato.
No, non è il tempo che mi manca ma la volontà.

Per questo credo sia arrivato il tempo di salutarci.

Ho nostalgia di quella vita in cui davvero ci si perdeva, davvero ci si diceva addio, quella vita in cui tu non sapevi più niente di me ne io di te. Era bello ma sopratutto necessario non sapere niente delle reciproche esistenze. Era bello e necessario perché il tempo e la nostra memoria restituiva alle persone una dignità che non avrebbero mai posseduto se non che con l'assenza.
Come una polaroid che dona ad una immagine un colore tenue di cui la vita vera è sempre stata priva.

Qui sembra costantemente di sapere tutto di tutti, sembra non ci si possa perdere di vista, siamo tutti troppo distanti eppure fastidiosamente vicini.

Ho nostalgia di un  telefono che squilla a vuoto echeggiando tra le stanze e che se non sei li dovranno aspettare il tuo ritorno per parlarti.
Ho nostalgia delle lettere che arrivano in un appartamento in cui non vivi più e che per questo torneranno al mittente, che non saprà e non potrà più scriverti lettere di perdono, non potrà più chiederti come stai.

Al contrario io so cosa mangi, di che parli, cosa scrivi. Vedo le tue foto su Instagram, so del tuo lavoro su LinkedIn, della tua vacanza al mare su Facebook, e poi quelle infinite insopportabili informazioni che su 140 caratteri di Twitter condividi più o meno regolarmente e che dovrebbero darmi l'ampiezza e la consistenza di una esistenza.

Io vorrei poter non sapere niente ma sopratutto vorrei che tu non avessi l'illusione di sapere.

Tu conosci solo Artemisia ma non hai mai avuto il piacere di conoscere Chiara.

Chiara che non fa più la modella ma la fotografa, che insegna con passione  ma non smette di imparare, che adora correre nel parco anche quando piove ma sopratutto che  ha un motivo veramente importante per desiderare l'arrivo della prossima primavera.

Questa però è un'altra storia ed io ora non posso raccontartela perché qui c'è troppo rumore.

Tornerò? non lo so, davvero non lo so, forse un giorno quando il telefono squillerà ed io sarò a casa per rispondere, quando il postino mi recapiterà la tua lettera, quando le notizie dell'altro davvero torneranno a sorprenderci, forse un giorno quando tutto questo rumore si sarà attutito.

Ed è dunque così che Artemisia lascia il suo palco ed il suo pubblico, un ultimo saluto ed un ultimo bacio che tingerà di rosso la tua guancia sperando che resti per sempre indelebile.






Tuesday, September 17, 2013

Addio a Kilburn

Incomincia sempre così, con una valigia da fare, un nastro da imballo che stride fra le mani mentre lo si srotola e tutta quella vita che dentro una scatola di cartone proprio non ci sta.

Permettimi di aiutarti a capire quello che è successo, questa lunga assenza, questi mesi di tumultuoso silenzio.
Iniziare a spiegare, ma da dove? Ecco si, incomincerò dal giardino di rose.

Non ero mai stata a Belfast e di certo non si può dire che sia una bella città però in tutto quel grigio e in quelle strade ancora bagnate di sangue, divise ancora da muri di cemento e di intolleranza c'è un bellissimo giardino botanico.

E' proprio bello il giardino botanico di Belfast, con quella sua struttura ovoidale che è una delle prime del suo genere tutta di vetro e ferro.
Ecco eravamo seduti li, su una panchina proprio accanto al roseto dopo quella serata passata a sorridere, a ridere fra le sue braccia.

D'improvviso si è fatto serio, con quella espressione severa che lo contraddistingue quando sta per dire qualcosa che gli sta particolarmente a cuore, con quella compostezza da uomo del nord.

Non sono sicura di ricordare la sequenza ma credo che abbia incominciato grosso modo così: " Vorrei che rispondessi ad una domanda"
Aveva esordito così anche la sera prima quando mi aveva chiesto se avessi dei dubbi su di noi, lo ricordo bene perché quel temporeggiare sulle domande non è da lui, quel prender tempo solitamente non gli appartiene.
" Avevo pensato di chiedertelo domani, quando saremmo arrivati  presso i Giant's Causeway"
ma è stato quando a detto " vivere insieme" che le mie idee si sono fatte confusamente felici.

Ho risposto di si.

E' bello sapere di poter essere ancora positivamente sorpresi, di poter essere ancora stupiti.

Ed ora sono le ore 1.04 di una notte di settembre, ed io non posso dormire perché sto per dire addio a Kilburn.
E se pure questo posto è stato l'emblema della mia conquistata libertà, io non riesco che ha ricordare lo scorso inverno, e quella neve che sembrava non sciogliersi mai.
Celebro nel silenzio della notte l'estremo saluto a queste mura. A questa casa, a questa vita raccogliendo le mie ultime cose.
Mi restano poche ore per spazzare via le ultime paure, le ultime reticenze dettate dalla consapevolezza di dissestare ancora una volta un equilibrio che certamente funzionava, doverne ripristinare un altro mi lascia senza fiato.

Ma i miei occhi hanno visto il mare del nord, difronte a tale grandezza ogni cosa si riduce e diventa infinitamente piccola.
Questo momento è nostro, solo nostro.


P.s. Quella foto che vedi su l'ho scattata io durante il nostro viaggio,  i Giant's Causewey, sono certa ti sarebbero piaciuti.




Tuesday, May 07, 2013

Quello che resta oltre la ragione e l'orgoglio


"Chiunque il cui obiettivo è 'qualcosa di più alto', deve aspettare prima o poi di soffrire di vertigini ".

"No, vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. È la voce del vuoto sotto di noi che ci tenta e ci attira, è il desiderio di cadere, contro cui, terrorizzati, ci difendiamo." M.K.




Ho avuto bisogno di tempo per scrivere questa storia.
Perché  questa non è come le altre.  
Questa è una storia surreale, incredibile ed ha cambiato per sempre le mie considerazioni sulle coincidenze, sulle casualità e sul destino.

Ebbene se questa storia non mi fosse accaduta non ci avrei mai creduto. MAI. 


Considera questo.
E' un Venerdi sera, anzi no è il Venerdì sera del 25 Gennaio del 2013. Credo, ma non ne sono certa, che siano passate le 23, 30 ma è possibile che sia più tardi, forse  sta per scoccare la mezzanotte, come in tutte le fiabe, come in tutte le storie che meritano di essere raccontate.

Un treno sulla linea metropolina Jubelee di Londra, viaggia ad una profondità di trenta due metri sotto il livello del mare, questo significa che un passeggero, arrivato a destinazione dovrà salire su delle scale mobili per riconquistare la superficie. 
Quel treno viaggia con una velocità variabile di 20.5 miglia orarie includendo le fermate nelle diverse stazioni.

Ora immagina un altro treno, questa volta prendiamo un vagone della Central line, in questo caso il nostro treno non può superare una velocità di 30/ 40 miglia orarie, perchè sta percorrendo il centro della città e la distanza tra le fermate da una stazione ad un altra sono minori. Ci sono un minimo di  50 treni che viaggiano sulla Jubilee line e almeno 76 nella Central line nelle ore serali. 
Ogni anno 1,107 millioni di persone vengono trasportate da una parte all'altra della città.
Ricordiamolo è un venerdì, quindi ci sono tanti treni perché la gente è fuori per festeggiare la fine della settimana. 

Ora rispondimi, quante possibilità hanno due persone che si conoscono di incontrarsi, senza proposito, nei cunicoli di interscambio di una stazione ciascuno in direzione
opposta all'altro?

Gli avevo chiesto una ragione, una sola valida ragione per cui io avrei dovuto accettare il suo invito. Mi rispose che era troppo orgoglioso per darmene una. Ed allora No, niente appuntamento. Questa volta niente sconti.
Volevo seppellirlo in quella giornata d'inverno, di inferno. 
Quale meraviglioso funerale, farlo giacere per sempre sotto una gelida coltre di pura, soffice neve.
Ed allora qualcun altro, qualcos'altro,  ha scelto per noi, oltre le mie ragioni e oltre il suo orgoglio. 

Questa storia non ha niente a vedere con il caso e con le sue regole.
Questa storia si chiama destino, quella forza naturale ed oscura che si è chiaramente beffata di me.

Ed è così che l'ho ritrovato il mio cuore.
Non un altro, non uno in prestito ma proprio il mio.
Nel freddi antri di scambio fra una linea metropolitana all'altra, in una delle più grandi metropoli d'Europa.


Ero li che lo guardavo incapace di pronunciare parole. I nostri occhi incollati, le nostre bocche serrate e mute mentre milioni di pensieri viaggiavano fra di noi.

Ho sentito quello spazio vuoto ed informe che aveva lasciato riempirsi nuovamente. Farsi spazio palpitante tra la carne. 

Non c'erano più colori, odori, rumori. Eravamo soli e ci possedevamo a distanza. 
Senza di te sono un corpo vuoto, senza di me sei solo una libra di carne.

Noi ci apparteniamo, ci siamo sempre appartenuti. Noi siamo fatti della stessa sostanza. Ti dirò si mille volte. Mille volte si.

P.S. Questa foto è per me di grande valore. L'ho scattata durante il nostro primo viaggio insieme, nella sua Irlanda. Il sole finalmente.

Friday, December 07, 2012

My heart deceived me

Il mio cuore mi ha tradito.
 Si è congedato con un messaggio. E' il coraggio che manca. La capacità di guardare negli occhi qualcuno quando si dice la verità.
Forse sono occhi disarmanti, portatori di sguardi che non si sostengono.
Questi miei grandi occhi. Non un mare azzurro ma un immobile lago verde scuro.
Quelle poche righe e quelle parole di troppo.
Ed io non una parola, non una riga, non un segno di interpunzione.
Io il niente più assoluto, il silenzio più totale.
Sai quanto mi piace concedermi l'ultima parola ed invece no, questa volta l'ho lasciato da solo, sul quel palco a recitare il suo monologo.
Nessuno dietro le quinti che aspetti di entrare per dare la sua battuta.
Il sipario si chiude e  lo spettacolo è finito, senza applausi, senza spettatori.
Addio cuore.
Poi ho indossato le scarpe da ginnastica e sono andata a correre per consumare le suole ed il dolore per una insostenibile assenza.








Friday, November 23, 2012

Una promessa

La mia è una promessa d'amore. Per amore... amor proprio.

Se mi ferirai, se mi farai sanguinare, se mi sfigurerai lasciandomi piena di lividi e graffi, se mi lacererai l'anima, se violenterai la mia mente, se in fine, mi lascerai distrutta con il corpo martoriato e tumefatto,

Io giuro che ti strapperò il cuore dal petto e ancora palpitante, lo mangerò.

Tuesday, November 20, 2012

Quando finiscono le favole.

Nessuno ci racconta mai  come vanno a finire le storie a lieto fine, tutti tacciono dopo quel sentenzioso " e vissero felici e contenti".

Per questo non sappiamo cos'è la felicità, per questo non sappiamo raccontarla.

E se questa fosse una storia? Se io potessi raccontartela?

Ecco, ricordi quei due?

Li abbiamo lasciati li per strada a scambiarsi la promessa di un incontro o se vuoi li abbiamo lasciati li con la loro storia andata male, con il loro non capirsi, con i loro reciproci addii.

Ecco proprio loro.
Infondo ci si affeziona ai personaggi di una storia e ci siamo affezionati alla ragazza italiana dalle gambe lunghe e magre, al ragazzo dal nome irlandese, imperscrutabile con il suo impermeabile scuro.

In fondo abbiamo tifato un po tutti per loro, abbiamo  avuto bisogno di credere che potevano farcela, che quel reciproco interesse nato in una sera d'Ottobre potesse sopravvivere alla crudeltà del razionale, alla freddezza della realtà.

Dopo aver riversato tutto il nostro crudele cinismo, abbiamo maggiormente bisogno di credere in qualcosa, un barlume di speranza, abbiamo bisogno di pensare che qualcosa di consistente rimanga, anche se non narrato, dopo un "e vissero felici e contenti".

 E allora mettiamo che si, si  fossero detti addio, mettiamo che avessero deciso di non incontrarsi più. Perché allora sono in quel bar? perché si stanno baciando?

Tutto questo non ha niente a che vedere con la ragione, non c'è nulla di sensato.
C'è qualcosa di folle, di totalmente deviato, di estraniante e pur tuttavia spontaneo.

Goethe avrebbe detto che è dovuto ad una  reazione chimica, elementi che tendono a stabilire una affinità, cioè una predilezione nel costituire un legame.
Non saprei usare parole migliori di queste.

Sono li seduti e si consumano di baci, tra qualche ora si separeranno, e torneranno ognuno verso casa.
Si vedranno ancora e questa volta non c'è dubbio.

Lei si sentirà stupidamente felice.
Temerà la fragilità della sua felicità, si dispererà al pensiero che  possa non essere corrisposta come vorrebbe, però non può fare a meno di sentire il profumo di lui sulle sue mani, non può fare a meno di pensare che è martedì notte, che fuori sta piovendo e che è innamorata.

p.s. Questa foto è quello che vedo dalla mia finestra ed è il simbolo della mia conquistata libertà, della mia costruita felicità, niente mi è più caro di questo.









Tuesday, October 23, 2012

Se questa fosse una storia

In una sera d'Ottobre, dopo aver cenato con alcuni amici in un ristorante di May Fair, si incamminò verso casa.

Non faceva freddo ma aveva piovuto e l'umidità era tutto intorno come una patina opaca e bagnata, una pellicola di cellophane  appiccicosa che con persistenza avvolgeva ogni cosa.
Aveva le gambe lunghe e magre indolenzite dalle estenuanti corse alle quali si era sottoposta con intransigenza da mesi, ogni giorno, in nome di quel benessere che alla fine, lei lo sapeva, era più mentale che fisico.

Camminava con passo svelto con un'andatura oscillante accentuata da quei tacchi altissimi che la facevano sembrare ancora più magra, più sottile, un filo d'erba.
Teneva le braccia intorno al corpo serrate in un abbraccio.

Si infilò giù scendendo rapida le scale mobili della metropolitana. Fece attenzione a non urtare le persone che sostavano sul lato destro, trasportate da quel cigolante nastro metallico mentre veloce scendeva nella pancia della terra.

La luce verdognola del neon sfarfallava con una  intermittenza quasi impercettibile.
Salì veloce su vagone del primo treno. Scese alla prima fermata poi a passo ancora più ritmato camminò tra i cunicoli stretti e bassi.

Doveva arrivare a prendere l'altra linea, collocarsi li dove inizia la banchina e dove il primo vagone del treno avrebbe sostato.
Sapeva bene che se si fosse collocata in quella posizione, nella stazione di Oxford Circus, una volta arrivata a destinazione si sarebbe trovata nella parte più vicina all'uscita e avrebbe risparmiato alle sue sottili gambe stanche diversi metri.
Si collocò li dove era previsto e diede una rapida occhiata al cartellone luminoso. Due minuti ed il treno sarebbe entrato in stazione.

Due minuti, è strano a credersi ma, delle volte, è il tempo necessario ad avvicinarci a qualcuno, il tempo necessario a scrivere un nuovo capitolo, magari una nuova storia. Due minuti, cosa sono due minuti?  un tempo infinitesimale se considerata un' intera esistenza.
Fu in quel momento che lo vide arrivare con un passo deciso. Lei che pure era abbastanza attenta come osservatrice, non gli avrebbe prestato attenzione se lui non avesse scelto quella posizione con la stessa sicurezza con cui lei lo aveva fatto solo qualche secondo prima.
Lei ebbe l'immediata consapevolezza che la scelta di  lui di collocarsi in quel posto era pertinente come la sua.
Era alto e magro. Indossava un impermeabile scuro. Una serietà austera gli irrigidiva i lineamenti. Una bocca non troppo grande ma ben disegnata, una fronte spaziosa.
Il treno arrivò in stazione con il solito rumore assordante di freni e con una ventata che la fece retrocedere qualche passo dalla linea gialla tracciata sul marciapiede.
Aspettò che i passeggeri scendessero poi con un saltello salì sul treno.
Vide un posto a sedere e sperò di potercisi accomodare ma il ragazzo con l'impermeabile era già li. Stava per sedersi quando la notò e fece cenno per cedergli il posto.
Lei si affrettò a pronunciare un gentile diniego, così come si deve in quelle circostanze ma lui fu prontamente categorico.
" Please do it!"

Lei prese posto e qualche fermata dopo anche lui trovò a sedere nella fila di fronte.
Per un attimo i loro occhi si incrociarono.
Poi si guardarono ancora ma questa volta nessuno dei due abbassò lo sguardo. Solo alcune persone che erano in piedi e che ciondolavano mollemente lasciandosi trasportare dal movimento basculante del vagone, impedivano ad entrambi di continuare a guardarsi. Le porte si aprirono e si richiusero per un paio di volte, poi lei si accorse che era arrivata e si alzò.

Lui fece altrettanto.
Lei sorrise tra se pensando di aver avuto la giusta intuizione circa la loro stessa scelta del vagone.
Per qualche secondo camminarono uno accanto all'altra, più piano di quello che avrebbero fatto se non si fossero notati.
Poi lui le chiese se aveva passato una bella serata, così come si farebbe con qualcuno che si conosce. Lei gli sorrise, gli disse di si.
Lui notò l'accento straniero di lei e gli chiese da dove venisse. Lui si presentò.
Aveva un nome bello e raro di origine irlandese.
Lei si accorse che l'espressione dura di lui si era sciolta in un sorriso, un bel sorriso.
Camminarono fuori dalla stazione.
Lui le chiese se voleva bere qualcosa, lei le disse che avrebbe voluto ma non quella sera, un'altra volta.
Lui sorrise e le disse che quello, dalle sue parti,  era un modo cortese di dire di no.
Lei gli rispose che quello, dalle sue parti,  era un modo cortese per dire " un'altra volta".
Dopo quelle formalità che avrebbero permesso di vedersi ancora si fecero compagnia per un breve tratto di strada, si salutarono con la promessa di rivedersi presto.

Ecco se questa fosse stata una storia, se questo fosse stato un romanzo, un film, un semplice racconto di narrativa questo sarebbe stato un bel inizio.
Ma questa non è una storia, e se rassomiglia a un racconto o ad un film, è solo un caso.

La vita non è un testo di narrativa e non si può scrivere con quella serenità pacificante di un racconto. La vita ci aggiungerà sempre qualcosa di ruvido, una nota stonata, un incidente che improvvisamente muta tutto quello che era nelle premesse.
Se la vita è vita, se lui e lei si fossero cercati e visti in seguito, dopo quella sera che aveva tutta la suggestione di un racconto perfetto allora non sarebbero stati felici e così come si sarebbero trovati si sarebbero  anche perduti.
La vita va anche così.



Maybe we make a deal, maybe together we can get somewhere
And finally see what it means to be living